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Immagine del redattoreLuca Brivio

Cassazione: il datore di lavoro è responsabile per lo stress in ufficio



Il datore di lavoro deve rispondere per i danni sulla salute provocati al dipendente, anche se non necessariamente derivati da mobbing. Così ha ribadito la cassazione, con la sentenza 2084/2024 del 19 gennaio scorso: la prevenzione della malattia da stress in questo modo non si limita soltanto a frenare situazioni di mobbing e discriminazioni pesanti, ma si amplia anche a diminuire il generale stress da ufficio, anche colposo.


Primo grado e corte d'appello

La controversia riguarda un dipendente pubblico che aveva portato in giudizio il datore di lavoro a causa dei danni psichici da stress subiti dallo stesso, che avevano causato diverse patologie nel lavoratore. La richiesta di risarcimento era stata accettata dal tribunale di primo grado, ma in appello il fatto era stato ribaltato.

La corte del tribunale d'appello di Ancona (nel 2018) aveva infatti ribaltato la sentenza, pur ritenendo che le patologie erano causate dalla stess: "pacifico fra le parti che [il lavoratore] abbia sofferto di disturbo dell'adattamento con ansia e umore depressivo, scaturito dallo stress lavoro-correlato" . Infatti, secondo la corte d'appello, il comportamento del datore di lavoro non rientrava nella definizione di "mobbing", inteso come comportamento vessatorio e deliberato, negando qualsiasi rimborso al lavoratore che aveva promosso la causa.


Cassazione: nuovo ribaltamento della sentenza

La Cassazione ha deciso, con la sentenza sopracitata, di ribaltare nuovamente la decisione, confermando di fatto la sentenza di primo grado, partendo dalla considerazione che la violazione da parte del datore del dovere di sicurezza (articolo 2087 del Codice civile) ha natura contrattuale e, dunque, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale. La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore, prosegue la Corte, non ammette sconti: fattori quali l’ineluttabilità, la fatalità, la fattibilità economica e produttiva non giustificano cedimenti delle misure di tutela e prevenzione.

Pertanto, secondo la Cassazione, per rintracciare una responsabilità in capo al datore non è necessaria, come si richiede nel caso del mobbing, la presenza di un «unificante comportamento vessatorio»: basta l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come la tolleranza di condizioni di lavoro stressogene. Non importa, secondo la sentenza, quale sia l'entità del danno: una volta accertato il fatto, essa potrà determinare al massimo l'entità del rimborso, non la colpevolezza o meno del datore di lavoro.


Conferme di tendenza

La sentenza conferma la tendenza, negli ultimi anni, a rifiutare letture riduttive dei regolamenti di sicurezza, permettendo ai lavoratori, qualora le relative norme (come l'art. 2087 c.c.) lo prevedano, la possibiilità di accedere a congrui rimborsi per il danno ricevuto.

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