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Immagine del redattoreLuca Baj

ESG: il 2020 sarà l'anno della svolta...Nel bene o nel male

Nel febbraio di un 2020 appena iniziato ma che già portava in dote nuove tensioni tra USA e IRAN, la divisione di index providing di Morgan Stanley, numero uno al mondo in tema di valutazioni di sostenibilità, prospettava un roseo futuro per gli ETF ESG. Un raddoppio degli investimenti entro fine 2020 e addirittura la conquista della qualifica di standard di mercato per gli investimenti (al pari del rating) con quindi il superamento degli indici tradizionali a portata di tiro entro breve tempo. Ormai la quasi totalità delle proposte ETF sia equity che bond nasce infatti sotto la protettiva egida di un rischio contenuto dalla lungimirante gestione delle aziende selezionate, dall'esclusione di settori con esternalità negative e forte di garanzie di performance a medio lungo termine garantite dai mega trend in corso. Ma è davvero così? Si è soliti dire che il valore emerge quando le cose si mettono male. Ecco. Secondo alcuni, a conti fatti, non è emerso un gran che, e quello che è emerso non ha nulla a che fare con la sostenibilità. Le parole della SEC in merito all'indagine di recente resa nota “the Commission wanted to know whether money managers are engaging in false advertising by saying funds are devoted to doing good when the reality is much murkier...." sono state lapidarie, in breve, questi prodotti non sono quello che dicono di essere. In dubbio anche le prospettive di crescita su importanti asset esteri in quanto strettamente legate alle relazioni con Pechino sia via Hshares che per le più recenti Ashares continentali per le quali, ancora, si chiedono lumi in merito alle metriche di selezione. Se la Cina vorrà restare un'importante meta per i capitali dovrà essere più trasparente, più ESG. Guardando innanzitutto al comportamento di queste selezioni nell'ambito della crisi attuale, durante il crollo le selezioni ESG si sono comportate meno bene di quanto molti credessero, spesso performando peggio dell'S&P 500 stesso ( ma anche della sua versione equal weighted), che, badiamo bene, ha il solo scopo di rappresentare le large cap statunitensi, senza quindi alcuna selezione "di merito". Nulla di eclatante neppure durante la fase di risalita in corso. Una protezione dai rischi di breve discutibile, certo non gradita al pubblico retail meno avvezzo al rischio. I sostenitori delle soluzioni ESG hanno definito questa evidenza come tutt'altro che inattesa addirittura fisiologica per un investimento comunque azionario e destinato a dare risultati nel tempo, oltre che in modo non certo indipendente dal timing d'ingresso. Per godere dei vantaggi promessi, servirebbe insomma tempo. I detrattori, alcuni dei quali figurano tra le più importanti fonti d'informazione finanziaria a stelle e strisce hanno argomentato che il business della sostenibilità non sarebbe altro che un nuovo modo per riempire le tasche dei grandi AM, ma anche e soprattutto che l'investimento pecca in diversificazione e focalizza le maggiori partecipazioni sempre sui “soliti noti”, ossia i big tech, titoli che di “socially responsible” non avrebbero poi molto. Le commissioni richieste dagli issuers salgono, naturalmente in compagnia alle valutazioni azionarie dei top holdings degli indici (portafogli dei 100 ESG funds più importanti) quali Microsoft, Apple, Alphabeth, Visa, P&G, Amazon e per le Cinesi Alibaba e Tencent. Nell'elenco è ovviamente importante la presenza dei big pharma mentre per il finanziario JPMorgan Chase e Allianz sono i titoli più investiti. La controparte fa presente come ricorrere al continuo riacquisto di azioni proprie spesso addirittura finanziato via debito non rappresenti esattamente una pratica “sostenibile” e che identificare come lungimiranti aziende tecnologiche o finanziarie suoni come una barzelletta visto che “non potrebbe essere diversamente” visto lo specifico business da loro svolto. A parte le critiche in merito al senso di responsabilità di questi giganti, il problema è che scorrendo i nomi, pur non potendo effettivamente leggere quelli dei famosi settori con esternalità negative (quali i petroliferi ad esempio), le società in questione sembrano avere poco a che fare con un potenziale concreto contributo alle cause implicite nel trittico. Il marketing avrebbe promesso qualcosa di radicalmente diverso. Questa la non troppo lusinghiera accusa. A fare da sfondo a queste contestazioni c'è poi “la questione cinese”. E questa si complica ogni giorno di più.L'Asia, e la Cina in particolare, giocano anche su questo delicato tema un ruolo importante, per non dire cruciale, vista la recente apertura dei mercati equity e bond continentali e le relative, eccezionali, dimensioni. L'adozione da parte di questi paesi di modelli di business più in linea con gli standard ESG (ed in generale con gli standard dei mercati finanziari sviluppati ) risulta fondamentale per velocizzare l'adozione di questi criteri a standard internazionale ma rappresenta un passo fondamentale anche per permettere a Pechino di aprirsi al finanziamento estero decisivo per realizzare il radioso futuro riassunto nel piano Made in China 2025. Un'iniziativa, quest'ultima, certo non gradita l'amministrazione americana visto che punta a consacrare l'economia cinese quale prima nel mondo. I piani del colosso asiatico sono però a rischio, insieme con il promesso impulso alle selezioni ESG. Dalle vere truffe commesse da aziende cinesi quotate negli Stati Uniti alle rappresaglie chiaramente protezionistiche messe in campo da Trump per proteggere l'imprenditoria domestica, quella che ormai può a tutti gli effetti considerarsi una lotta senza esclusione di colpi è continuata con le recenti conferme in merito ad un disegno di legge in grado di innalzare di molto gli standard di trasparenza richiesti alle aziende cinesi per continuare a godere della quotazione sui listini americani. Trasparenza o morte. La minaccia è quella di assistere entro qualche anno a numerosi delisting di aziende cinesi, anche molto apprezzate, verso il listino di una, sempre più movimentata, Hong Kong. L'implicazione immediata è il disinvestimento dalle azioni cinesi. Ricordiamo, a tal proposito, che il processo di integrazione delle Ashares cinesi nei principali indici MSCI si è ad oggi concluso e il provider, come ormai anche i suoi concorrenti, propone globalmente una vasta gamma indici che incorporano questi titoli quanto le classiche offshore. Non vi sono dubbi che alcune di queste azioni abbiano un enorme potenziale ma è pur vero che il mercato cinese è immaturo ed esposto a grandi rischi. Le logiche ESG potevano attenuarli e in tal senso costituire la chiave di volta per una selezione più attenta. Già a novembre 2019, il senatore Marco Rubio, richiedeva infatti lumi proprio a MSCI in merito a come fosse possibile offrire agli investitori retail americani azioni cinesi continentali tramite indici così popolari, esercitando peraltro un'evidente pressione all'acquisto sui big di Wall Street, nonostante fosse evidente che buona parte di queste aziende evidenziasse chiare lacune informative in merito a, citando le parole di Rubio:

- partecipazione o controllo da parte delle autorità di Pechino in qualità di detentore del debito o partecipazione alla compagine sociale e quindi potenziale diretto trasferimento del denaro al governo centrale anche i fini del finanziamento del piano Made in China 2025 stesso(secondo MSCI IL 58% delle A- Shares è controllata dall'autorità centrale a vario titolo);

- perseguisse interessi legati a quelli dell'autorità centrale, potenzialmente riconducibili a fini informativi o militari;

- effettivo rispetto dei diritti umani, nel presente ma soprattutto in passato

- etc (elenco completo in calce).

Si tratta chiaramente di caratteristiche incompatibili con i principi ESG.

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