Fondi tradizionali vs ETF: crollo e rally, nel 2020 vincono ancora gli ETF (per ora)
Nuovi dati resi disponibili dalla divisione indexing di S&P portano alla luce le performance più recenti dei principali gestori di portafoglio, ma, mentre assistiamo al lento rientro dell'emergenza sanitaria, della loro capacità di attutire le perdite durante i ribassi ( febbraio marzo) e battere il mercato durante il rally che stiamo vivendo non c'è stata traccia. Oltre dieci anni di rialzi con non poche voragini (rapidamente colmate) a rendere più significativo lo scenario di riferimento avevano già da tempo evidenziato l'incapacità di oltre l'80% dei gestori equity nel sovra performare il relativo benchmark nel lungo termine. Di meglio hanno fatto quindi gli ETF tradizionali, i cosiddetti replicanti, oggi non per nulla signori indiscussi sul listino equity statunitense, senza poi guardare ai risultati portati in dote degli ETF fattoriali. Questi ultimi, che, ricordiamo, senza ancora sconfinare nella gestione propriamente attiva, applicano meccanicamente le più rudimentali e statiche regole di gestione per definire il proprio portafoglio, hanno infatti portato in dote, negli anni, risultati persino doppi rispetto agli indici parent. Il collo innescato dalla pandemia Covid 19 ha però certificato ulteriormente l'inefficacia del gestore attivo nel “momento del bisogno” con i primi due trimestri 2020 che vedono ancora i gestori arrancare dietro alle performance dei redivivi indici. Certamente la ripresa è stata fin troppo rapida per essere cavalcata senza le dovute cautele, ma come vedremo, anche aspettarsi scelte gestionali lungimiranti lontano dagli eccessi speculativi potrebbe rivelarsi troppo ottimistico. Guardando gli USA, il mercato più efficiente per definizione, peggio di tutti hanno fatto i gestori large cap, per il 54% dell'offerta non al passo con i relativi indici nel primo trimestre dell'anno, una situazione peggiorata ulteriormente guardandosi alle spalle ytd in aprile, quando ormai il 59% delle gestioni performava al di sotto di benchmark acquistabili al costo di pochi punti base (spesso dieci volte meno del fondo gestito). Prendendo oggi in esame i due trimestri appena conclusi, la percentuale degli alpha seekers che non ha saputo seguire il benchmark sale ulteriormente, attestandosi ad un preoccupante 67%. Si può fare di peggio solo avendo investito nei 12 mesi che hanno anteceduto il bottom di marzo 2020: il 72% dei gestori non ha saputo tenere testa al suo benchmark. Se, come anticipato, la cosa potrebbe non stupire visto l'obbiettivo quinquennale che molti di questi prodotti si prefiggono, le evidenze mostrano però che oltre a portare in dote una sotto performance stabile nei momenti di downturn e ripresa rapida (era successo anche con il crollo 2018 e la ripresa 2019), i fondi equity tradizionali forniscono, in taluni casi, sovra performance confinate esclusivamente in un orizzonte di massimo tre anni, ossia di breve termine. Stiamo parlando dei gestori growth o dei professionisti con focus small mid cap. Nessuna immunità e nessuna sovra performance per chi resta però investito in un prodotto gestito oltre i tre anni anziché optare per un replicante, con appunto l'80% di prodotti incapaci di seguire il proprio benchmark. In breve, dovremmo comprare tutti più ETF, preoccuparci meno durante i crolli, e rimanere investiti in prodotti liquidi e poco costosi, come peraltro espressamente suggerito da Warren Buffett? L'unica cosa certa è che, finora, per chi non ha saputo individuare i migliori gestori, questa scelta avrebbe pagato più dell'attesa del fantomatico “quinto anno”, di sotto performance. Si tratta, in effetti, di un suggerimento ampiamente ascoltato visto che dal 2015 i deflussi dalle gestioni tradizionali non hanno fatto che intensificarsi, come pure gli sbarchi delle stesse asset management firms nel business degli ETF. Il fatto che la ricerca di un gestore valido sia ardua, non implica però che questi non siano presenti e che la scelta migliore sia sempre e comunque seguire passivamente l'indice. Esiste, in effetti, la possibilità che il mercato, con l'ondata di panico, abbia offerto ai gestori più competenti l'opportunità, pressoché unica, di entrare in posizione a sconto su titoli che non meritavano un crollo tanto marcato, titoli (quality e value) che, come dati recenti evidenziano, mostrano un potenziale di salita e una solidità che quotazioni troppo legate alla speculazione non possono portare alla luce. In altri termini, questo mercato ancor non sconta adeguatamente il reale valore di molte aziende mentre appare troppo sbilanciato su titoli con ampi margini di ribasso (il caso Hertz, passata dal bankruptcy protection ad una performance del +1600%, fa fatto spaventare perfino Ben Graham). Del resto, per le fasi di accumulo istituzionale occorre del tempo, e del silenzio. Visti i risultati sopra mostrati, l'esigenza di una gestione attiva interna all'ETF non si è per ora concretizzata nei numeri con il segmento che non raggiunge il 3% per mercato. Nonostante questo, gli issuers già si preparano ad un compromesso silenzioso che nello spazio di alcuni anni potrebbe rivoluzionare il mercato, il tutto con chiari ma inevitabili compromessi sulla trasparenza degli holdings, in pieno stile tradizionale: la SEC, accogliendo svariate domande di quotazione “innovativi” ha de facto sancito la nascita di una categoria di ETF che negli USA si prepara a diffondersi sotto il nome di “non transparent ETFs”, ossia ETF che manterranno riserbo assoluto in merito alle asset scelte dal gestore attivo e relativi cambiamenti.
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